Nel 1997 ho lasciato la guida di una parrocchia di lunga tradizione (fondata nel 1603), situata nella campagna milanese, in un contesto ancora sostanzialmente agricolo ma nel quale era stato da poco realizzato un grande ed esclusivo quartiere residenziale, popolata da abitanti con un reddito pro-capite tra i più alti in Italia, perchè la Provvidenza ha voluto che mi trasferissi a S. Pio X, una parrocchia giovane, di soli 40 anni di vita, situata in una realtà cittadina, in un contesto industriale caratterizzato dalla presenza di quartieri popolari, alcuni dei quali realizzati appositamente per i lavoratori dai propri “illuminati padroni” .
Il Parroco fondatore aveva lasciato la guida di S. Pio X l’anno prima, ed era morto da pochissimo tempo. Io dovevo iniziare a collaborare con il nuovo Parroco per l’attività pastorale.
Mi è stato chiesto di descrivere le sensazioni che ho provato in quel momento entrando in questa nuova nuova realtà, quello che più mi ha colpito …
Le sensazioni che ho provato sono state davvero tante, mi limito però a citare quella prevalente: ho avvertito di essere arrivato in una parrocchia grande (per numero di abitanti, quasi 10.000), ma piccola come estensione (come un paese), vorrei dire una parrocchia “grande paese”, ed ho trovato un clima di famiglia, dove le vicende vissute hanno avuto e hanno tuttora la loro importanza, dove i componenti mantengono un attaccamento alla loro storia (anche se parliamo di soli 40 anni), ma un attaccamento forte, perchè i momenti eroici della fondazione sono ancora vivissimi in tutti.
I primi abitanti di questo quartiere, arrivati da tutte le parti d’Italia, all’inizio non avevano ancora una loro chiesa: alla domenica dovevano recarsi alla chiesa di Milanino.
Le abitazioni erano sorte per lo più senza un piano regolatore (da qui il nomignolo di “corea” attribuito al quartiere), le strade erano simili più a strade di campagna che a vie di città, la popolazione, nella grande maggioranza, era povera, ma con la dignità e l’ambizione di costruirsi una propria casa.
E c’era un nuovo parroco che, nato a poco più di un chilometro di distanza e cresciuto come coadiutore nell’oratorio a circa 500 metri da qui, era divenuto titolare d’una chiesa più simile a un capannone industriale che al tempio del Dio vivente.
Poi c’erano i quartieri Pirelli, venuti su modo più ordinato, in mezzo ad ampi spazi sottratti ad una agricoltura ormai in rapido declino.
Ho percepito un clima di vicende familiari, con tanti ricordi colmi di affetto, un amore per la propria chiesa, un “santo” orgoglio di avere finalmente una propria chiesa e di sentirsi una comunità raccolta, dove era avvertita la responsabilità condivisa per le vicende della propria chiesa: questa chiesa è la “mia” chiesa ed il suo svilupparsi è un fatto che “mi riguarda”.
Ho riflettuto per capire da dove derivasse questo clima, ed ho trovato due risposte.
La prima risposta è di tipo “storico”: in parrocchia era presente ed attiva una associazione, l’Azione Cattolica, che contava – tra uomini e donne – un numero di aderenti a tre cifre. Tutte le attività della parrocchia partivano dall’Azione Cattolica; tutti i soci di AC si sentivano impegnati a dare il proprio contributo personale (tempo, denaro e preghiera). Essere di AC voleva dire essere impegnati innanzitutto con Dio, nella Santa Chiesa, per il Regno di Dio dentro le case abitate dagli uomini. La parola d’ordine era “Azione”, ma prima ancora “Formazione”.
Queste persone avevano assunto davanti all’altare l’impegno di collaborare con la gerarchia della chiesa, ma non come semplici esecutori di ordini. L’altare di Dio non era una cosa che riguardava solo il sacerdote, ma anche loro laici. La preghiera quotidiana era una proposta messa sullo stesso piano dell’azione quotidiana.
Questa era – storicamente – la forza dell’Azione Cattolica di allora.
Ma a ben pensarci, ho trovato una seconda risposta che mi spiegasse quel clima di affetti familiari dentro questa parrocchia: una risposta teologica.
E qui mi rifaccio all’affermazione di un biblista che notava un particolare nel linguaggio biblico di grande significato: nel Nuovo Testamento non c’è una volta che il prete venga definito con il termine “sacerdote” o “pontefice”. Anche in tutti i documenti del Concilio Vaticano II il prete non viene definito “sacerdote”, ma piuttosto “presbitero”. Nel Nuovo Testamento infatti il termine sacerdote o pontefice è riservato a Gesù e al popolo di Dio, che forma la “chiesa” definita “popolo sacerdotale”.
Il prete o presbitero esiste in quanto assolve il compito di servire il sacerdozio del popolo di Dio e per mettere a disposizione i doni che Gesù ha lasciato affinché il popolo sacerdotale possa efficacemente esercitare il suo compito nel mondo. L’ordinazione sacerdotale di questo popolo è rappresentata dal battesimo.
Il laico battezzato non è dunque più distinto dal sacerdote, ma dal prete, perché lui stesso è sacerdote, in quanto chiamato ad un ufficio sacerdotale da offrire a Dio in culto spirituale. Nella vita di ogni battezzato, la fede, la speranza e la carità, perdono la connotazione dell’umano e si trasformano nell’offerta divina: “offrite i vostri corpi come sacrificio di lode a Dio”.
Questo discorso è stato l’anima dell’Azione Cattolica.
E davvero io posso dire di aver trovato nella parrocchia di S. Pio X figure di laici che hanno esercitato ed esercitano questo sacerdozio: chi pregando con la diurna laus, chi preparando artistiche tovaglie d’altare adatte ai vari tempi liturgici, chi dedicando il proprio tempo al servizio della chiesa, chi recitando il rosario per strada mentre si reca in chiesa, chi nel consiglio pastorale si accalora in discussioni avendo comunque solo a cuore il bene della parrocchia, chi – e sono in molti – sente il bisogno di santificare anche i giorni feriali con la partecipazione alla santa Messa, chi passando di porta in porta a raccogliere le offerte per le opere parrocchiali, ed infine chi si è impegnato con spirito di servizio nella politica, nel sindacato o nelle ACLI.
Ma la ragione di questo impegno deriva dalla consapevolezza che la chiesa di Dio appartiene al popolo di Dio, ed in questo ambito il popolo di Dio esercita il suo sacerdozio. Questo spiega allora tante cose, e fa emergere un dato fondamentale che è l’amore profondo per la propria parrocchia, che è poi l’amore per la propria vocazione battesimale, di cui il vero laico cristiano si sente responsabile.
In conclusione, mi sono reso conto di essere partito da una parrocchia in cui il prete doveva “fare tutto” e di essere arrivato in una parrocchia in cui il sacerdozio è condiviso.
E ringrazio Dio di aver fatto questa bella esperienza.
Dicembre 2008 – don Luigi Lesmo
(Sette anni per cui dire grazie)
Un sabato sera di novembre, ora di cena. La telefonata è di quelle che non mi aspetto, ma fa piacere rispondere. È un vecchio amico che saluta e chiede un favore da poco: “Poche righe – mi dice – un paio di paginette per ricordare gli anni trascorsi tra noi. Te la senti?”. Certo che me la sento, penso tra me e me, non è che ci voglia molto. Conservo un arsenale di ricordi, una miniera di fotografie, un forziere di emozioni e di parole. Si tratta solo di fare un po’ d’ordine, di dire poche cose senza esagerare. Poi comincio a scrivere, e capisco al volo di aver sottovalutato l’impegno. Perchè provare a raccontare i miei primi anni da prete, i sette passati a San Pio X, è come entrare in un campo minato, o se preferite in un bosco pieno di trappole. Non ci credete? Proverò a convincervi.
Pensate a quanto sia facile cadere nello stile retorico, da parata. Trasformare la musica sottile del ricordo in una fanfara stonata. È sempre un po’ così negli anniversari: si fa fatica a sfuggire alla tentazione di celebrare se stessi e la propria stagione, magari anche – nel peggiore dei casi – finendo per sminuire la bellezza e la forza di quella in corso. Oppure si può cadere e rimanere invischiati nel miele della nostalgia: un “come eravamo” dolciastro e nauseante come lo sciroppo per la tosse, dove ricordi e rimpianti si fondono in un’unica melassa appiccicaticcia. No grazie, non ce n’è bisogno. Un altro rischio è quello di scadere nell’aneddotica, e perdersi nel racconto di qualche episodio marginale. Poi, si sa, uno tira l’altro, e al termine di una sequenza imprecisa di fatterelli e storielle d’altri tempi, il lettore (confuso e un po’ seccato) si chiede: “E allora? Cosa mai avrà voluto dire?”. E poi, lo sappiamo bene, il tempo che passa ridisegna i contorni dei ricordi, li accentua o li sfuma a suo piacimento, li cancella e li fa riapparire seguendo il proprio capriccio. Capita così: la distanza nello spazio e nel tempo ci fa leggere le cose non come erano davvero, ma così come le vediamo ora. Un punto prospettico tutt’altro che banale – intendiamoci – ma ben lontano dalla pretesa storica o cronachistica di chi ritiene di poter dire le cose esattamente com’erano, e finisce col raccontarle soltanto come sembrano a lui, o come non sono mai state.
Bene. Dopo tutte queste filosofie mi sono trovato a un punto morto. E solo l’orario da lupi mi ha impedito di richiamare l’amico della telefonata per dirgli “guarda che mi son sbagliato, mi sa che non ce la faccio a scriverti quel benedetto articolo; inventati tu qualcosa, poi semmai io te lo firmo”. Disonesto. Non si fa così. E poi ho davvero voglia di dire, di scrivere. Ho un debito grande di riconoscenza con San Pio X, e allora… Allora forse il taglio giusto è proprio questo: scrivo per dire grazie, ricordo per poter ringraziare, torno indietro negli anni per poter manifestare un po’ di riconoscenza, per provare a restituire qualche briciola dell’abbondanza del bene ricevuto.
Devo dire grazie, prima di tutto, alle persone che mi hanno voluto bene. Sono state tante, e me ne hanno voluto tanto, troppo. Non riesco a dire grazie a tutti chiamando ciascuno per nome. E allora cito una persona sola, in cui tutti potranno riconoscersi: don Luigi Arienti, il “mio” parroco. Ho vissuto sette anni porta a porta con lui, abbiamo pranzato insieme centinaia di volte, migliaia se contiamo anche le colazioni. Mi ha amato con l’affetto tenero e preoccupato di un nonno, ha goduto senza nessuna forma di invidia e di gelosia del bene che mi voleva la gente, si è fidato di me, della mia età acerba, della mia irruenza giovanile che mi ha portato anche a sbagliare molto. A pensarci più di vent’anni dopo, il Signore ci ha davvero visto giusto. Non avevo bisogno, entrando nel ministero, di incontrare un brillante oratore, o un organizzatore preciso e instancabile, o un abile affarista. Cercavo un parroco che mi volesse bene, e Dio me l’ha dato in regalo. Con don Luigi, come lui, anche molti parrocchiani mi hanno riempito di comprensione e di affetto, ed io non sempre ho saputo ripagare con la giusta misura. Riscopro in tanti di loro, di voi, un amore che dura nel tempo, che sta saldo nonostante siano troppo poche le occasioni per vedersi, che ha saputo resistere alla prova delle mie dimenticanze e dei miei errori. Se devo ricordare i miei anni a San Pio X, li voglio ricordare soprattutto così: anni in cui abbiamo imparato, a volte con fatica, a stimarci e a volerci bene davvero.
C’è un secondo grazie mi sento di rivolgere alla parrocchia, anche se può suonare strano. Quando Monsignor Poma, allora rettore del seminario, mi chiamò pochi mesi prima dell’ordinazione per ascoltare le mie speranze e i miei desideri, mi chiese a bruciapelo: “Cosa domandi rispetto alla tua futura destinazione? Dove ti piacerebbe iniziare la tua vita da prete?”. È chiaro che non mi stava chiedendo nome e indirizzo di una parrocchia precisa (o di un collegio, un seminario, un ospedale…); voleva piuttosto un’indicazione generale, un suggerimento per trovarmi – se possibile – una collocazione vicina alle mie attese. Confesso che la domanda mi colse di sorpresa. Non avevo avuto il tempo di pensarci, e diedi una risposta di istinto: “Mandatemi in un posto povero, senza troppi mezzi e senza grosse tradizioni da difendere”. Fui accontentato. Gli anni di San Pio X mi hanno “costretto” a lavorare facendo i conti con la povertà dei mezzi. Le strutture, ora rinnovate dalla sapienza pastorale e dall’intraprendenza di don Danilo, erano palesemente inadatte ad accogliere tutti i ragazzi che frequentavano oratorio e catechismo; per non parlare dell’aspetto strettamente economico: soldi non ce n’erano proprio. Mancavano anche le cose più elementari, a pensarci bene. Don Luigi non aveva nemmeno l’automobile, e la vettura ufficiale era la mia 126 blu di seconda mano; in parrocchia non c’era la fotocopiatrice, e gli avvisi venivano stampati dalle suore grazie ad un ciclostile risalente – credo – alle guerre di indipendenza, che creava macchie di inchiostro vaste quanto il lago di Garda; i megafoni e gli amplificatori per le feste e l’oratorio estivo erano residuati d’altri tempi tenuti insieme col mastice e la buona volontà. Intendiamoci: non voglio descrivere uno scenario desolato di indigenza da alluvionati. Solo mi piace rimarcare il fatto che si doveva, per amore o per forza, lavorare col poco che c’era. Tutto questo, a ragion veduta, è stato un bene. Perché, come spesso capita, non poter contare sulla forza economica o sull’efficienza delle strutture ci ha portato naturalmente a scommettere sulle persone, sulla loro volontà, la loro generosità, la loro creatività, la loro passione. Questa è stata la vera ricchezza della parrocchia, in anni poveri di quasi tutto il resto. Lavorare “da povero” mi ha fatto bene. Mi ha levato da subito il desiderio di onnipotenza che spesso si nasconde nella generosità del prete giovane, mi ha messo di fronte ai miei limiti e a quelli delle strutture, mi ha permesso di apprezzare le persone al mio fianco e di fidarmi di loro, di godere delle cose piccole, marginali, di accogliere con meraviglia e stupore i progressi inaspettati, i cambiamenti lenti, i salti di qualità nel cuore e nella testa della gente. Da poveri si capisce meglio; il ricco si abitua a tutto, e non gli basta mai niente, vive scontento, disimpara il gusto e la bellezza della vita.
Vado avanti. Negli anni di San Pio X posso dire che non mi sono mai mancate due cose: le fatiche e le consolazioni. Non lo nego: per me sono stati anni duri. Venivo dalla Brianza e da dieci anni di seminario, con una parentesi felice di una stagione a Pioltello, in tirocinio pastorale dopo la seconda teologia. L’impatto con la periferia è stato forte. Non avevo nessuna esperienza, ero più giovane (tranne rare eccezioni) di tutti miei collaboratori, dovevo farmi le ossa, “pestare il muso” – come si dice dalle mie parti – contro la vita così com’era. La parrocchia non mi ha risparmiato nessuna delle giuste fatiche che un prete deve affrontare all’inizio del ministero. Lavoro da fare ce n’era sempre, anche troppo; i problemi non mancavano, gli errori che mi costringevano a ripartire nemmeno. Ma insieme a tutto questo posso dire che un tempo così mi ha regalato un’infinità di consolazioni. Mi sono appassionato alla mia vocazione, al mio essere prete, alle persone che ho incontrato. Mi sono commosso ogni giorno ammirando la fede degli anziani e dei malati, la tenacia e la generosità degli adulti, la freschezza e l’esuberanza dei bambini e dei giovani. Quella di San Pio X è stata per me una stagione ricca di emozioni forti e profondissime: dovessi dipingerla e colorarla lo farei con tinte accese, luminose, prive di troppe sfumature. Mi consola e mi conforta sapere che ancora oggi moltissime delle persone che ho conosciuto e accompagnato, e che a loro volta mi hanno custodito, sono ancora lì, nella comunità cristiana, ad ascoltare il vangelo e a provare a metterlo in pratica. Sono restate anche quando io sono partito, e questa è una soddisfazione enorme per un prete, un motivo di sano orgoglio. Tu non ci sei più, ma loro ci sono ancora. Mi viene da dire che forse ci sono ancora proprio perché te ne sei andato: hanno trovato altri ad accompagnarli, hanno imparato a camminare da soli.
Non posso concludere senza ringraziare il Signore. Non so se sono stato il prete giusto per San Pio X: certamente San Pio X è stata la parrocchia giusta per me. Negli anni passati tra voi, con voi, la mia piccola fede è diventata più forte, meno orgogliosa, più semplice, purificata dalle mie cadute e dai miei errori e dalla vostra pazienza e dal vostro affetto. Tutto questo è merito del Signore. Così come bisogna dire che se siamo stati capaci di farci del bene è perché lui ci ha tenuti insieme, ha sostenuto equilibri impossibili, ha raccolto pazientemente i cocci dei nostri sbagli e dei nostri malintesi, ha rinnovato in ciascuno di noi la speranza e la fiducia. Sono anni – lo sento – di cui nulla è andato perduto, nemmeno ciò che ci ha fatto soffrire, nemmeno il molto che non conosciamo, e che forse non riusciremo mai a raccogliere.
Quando in uno dei primi giorni di settembre del 1994 ho celebrato l’ultima messa tra voi, e sono partito, avevo la macchina piena delle masserizie del trasloco. Mi attendeva una nuova città, una nuova avventura, una nuova strada. Né allora nè oggi mi sono posto il problema se fossero più le cose che lasciavo o quelle che mi portavo dietro, cambiando casa. Non mi interessa saperlo. Le une e le altre non vanno perdute, nel piano insondabile della misericordia di Dio. È per questo che quasi quindici anni dopo posso ricordare ringraziando – commosso – la mia breve stagione di vita a Cinisello San Pio X. Perché non è stata una stagione perduta, perché tutta la sua ricchezza è custodita dall’amore di Dio. Ci ha fatto incontrare, ci ha tenuto insieme. Continuerà a volerci bene. Le strade di noi esseri umani si incrociano e si separano, si smarriscono e si ritrovano. Per il Signore, nel suo sguardo, le distanze dello spazio e del tempo sono poca cosa.
Dicembre 2008 – don Davide Caldirola
Eravamo nell’anno 1958. Nel quartiere “campo dei fiori” stava sorgendo la nuova parrocchia, che doveva chiamarsi “Madonna della Misericordia”. I signori Eigenmann, insigni benefattori, chiesero insistentemente che fosse dedicata a San Pio X, da poco tempo portato agli altari e da loro conosciuto molti anni prima in viaggio di nozze quando erano stati ricevuti in udienza privata. Intorno alla futura chiesa c’erano soltanto campi coltivati, cumuli di immondizie e nel quartiere “Regina Elena” diverse famiglie vi erano già stabilite, provenienti da ogni regione. Stavano sorgendo i villaggi Pirelli costruiti per gli operai dall’azienda e le prime famiglie già ne avevano preso possesso.
Ricordo il giorno (un sabato – festa di San Pietro) in cui con la mia famiglia arrivammo a Cinisello dal Lodigiano; contenti della nuova casa e del luogo, ancora così simile a quello che avevamo lasciato. I nuovi vicini provenienti da tutte le regioni ci accolsero con entusiasmo, tutti desiderosi di conoscerci al più presto.
Il giorno dopo, domenica, ci recammo alla chiesa più vicina, la “Regina Pacis” di Milanino, l’altra era “Sant’Ambrogio” di Cinisello, ma non si aveva nessun mezzo per raggiungerla e l’unica strada (l’attuale via XXV Aprile) non era altro che un ampio sentiero in mezzo ai campi di orzo e frumento.
La messa fu celebrata da Don Luigi Arienti, ancora coadiutore di quella chiesa, ma già la domenica successiva fu possibile aprire la nuova chiesa, che per la fretta non era del tutto finita, mancante perfino di parte del tetto e quando pioveva si andava in gondola. Furono sicuramente momenti esaltanti e imprevedibili.
Ricordo che un pomeriggio tornato a casa, il mio vicino sig. Gittani, mi disse che l’arcivescovo Montini (che non era ancora cardinale) stava benedicendo la nuova chiesa, dandole come pastore proprio il sacerdote conosciuto pochi giorni prima nella chiesa dove avevamo partecipato alla Santa Messa.
La domenica successiva decisi di recarmi a San Pio X. Trovai la chiesa gremita di gente, moltissimi erano i ragazzi; Don Luigi stava iniziando la celebrazione della Santa Messa e forse infastidito dai mormorii ad un certo punto chiese se qualcuno poteva occuparsi dei ragazzi; così presi in braccio mio figlio che aveva due anni e mi sedetti in mezzo a quei ragazzini. In quel momento iniziò il mio impegno nella comunità parrocchiale; che, pur con il passare degli anni (tanti) cerco ancora oggi di mantenere.
Il gruppo dell’Azione Cattolica nella nostra Parrocchia, si formò quasi subito dopo l’inaugurazione della chiesa per merito di alcuni parrocchiani già appartenenti all’Associazione e provenienti dalla Regina Pacis, furono questi i primi sostenitori e il loro impegno ed entusiasmo permisero la nascita di due nuovi gruppi: quello maschile e quello femminile.
Un particolare ricordo è dovuto al sig. Allegrucci, ai sigg. Giovanni e Amedea Buffa, alla sig.ra Ernesta Fabretto, senza però dimenticare quanto fatto da molti altri in quegli anni difficili nei quali la convivenza era problematica per scelte di vita differenti spesso quasi inconciliabili, senza molti mezzi se non il desiderio di incontrarsi, crescere e portare, senza paura, la propria esperienza cristiana nella nuova realtà.
Iniziammo così a riunirci nell’unico locale disponibile sotto la casa del Parroco; era l’attuale saloncino nel seminterrato, che purtroppo ad ogni acquazzone si allagava, fino al giorno in cui alcuni iscritti guidati da Bepi Maninetti e Mario Vecchies, esperti del mestiere, nelle pause del loro lavoro, costruirono una intercapedine, permettendo così l’uso dello stesso in tutti i periodi dell’anno.
Sia pure fatiscente, il saloncino serviva anche come luogo di incontro per la gioventù maschile. La gioventù femminile invece, assistita dalle suore salesiane provenienti da Sesto, data la mancanza di strutture, venne inizialmente alloggiata nei locali dell’attuale paninoteca adiacente alla chiesa.
La vita associativa dell’A.C. era strettamente legata alla parrocchia e alle sue necessità. Dove c’erano bisogni (ed erano tanti!) la presenza dei soci A.C. non mancava mai.
Nonostante le grandi necessità Don Luigi accolse le suppliche delle madri e diede la priorità alla costruzione dell’asilo. Grazie al loro costante impegno (ogni mese visitavano ogni casa per avere un’offerta, qualcuna in pieno inverno si prese pure un secchio di acqua in testa), a un buon contributo della direzione Pirelli e ai signori Eigenmann, si diede inizio ai lavori. Dopo non molti mesi l’Arcivescovo Montini benediva solennemente l’opera. Con tale inaugurazione (una delle prime strutture del genere a Cinisello!) la parrocchia ebbe la fortuna di ricevere un dono che ancora oggi ci riserva frutti: una Comunità salesiana stabile di Suore di Maria Ausiliatrice.
Tra le molte attività da loro intraprese in quegli anni (catechesi, oratorio con particolare attenzione alle giovani) sorse ad opera di Suor Ebe (prima direttrice) la corale; faceva tutto lei, dirigeva, suonava e cantava.
L’impegno della nostra Associazione emerse in particolare in occasione del ricovero al Niguarda di Don Luigi; la sua salute era in grave pericolo. C’eravamo organizzati in modo che non fosse mai lasciato solo, di giorno le donne e di notte gli uomini; furono momenti molto drammatici poichè si alternavano attimi di ripresa a improvvise ricadute.
Una notte, l’Arcivescovo Montini, si recò al suo capezzale, sembrava che non ci fosse per lui nessuna possibilità di ripresa. Due giorni dopo, di mattina presto, insieme a Giulio Pasquini (il nostro Padre Pio, cappuccino) ci recammo all’ospedale per avere notizie; ci venne incontro il maestro Delasio che raggiante ci diede la notizia che Don Luigi aveva superato la grande crisi; ricordo di avere pianto.
La convalescenza fu lunga; il parroco dovette allontanarsi per altri sei mesi e in quel periodo la nostra Associazione si prese carico di molti impegni: l’animazione liturgica, gli oratori, e molte altre cose che c’erano da fare, compresa la pesca di beneficenza, che venne allestita nei locali dove oggi c’è l’agenzia immobiliare.
La parrocchia nel frattempo era affidata al salesiano Don Perego, che doveva comunque conciliare questo impegno con la sua attività di insegnante. Ricordo che durante il mese di maggio ci si trovava in chiesa per onorare la Madonna. Si pregava e cantava in attesa dell’arrivo del sacerdote per il panegirico finale e la benedizione; poi tornava sempre in motorino tra i suoi studenti che lo aspettavano (non so con quale ansia).
Le famiglie erano molto numerose e i ragazzi in oratorio molti.
Tra la povertà di allora avevamo una vecchia macchina per la proiezione di film che stava insieme per miracolo. Io avevo l’incarico di affiggere i manifesti, che venivano sempre stracciati. Poi alcuni ragazzini mi indicarono il colpevole: era un bambino vivace, piccolino, con un paio di pantaloncini più grandi di lui, figlio di una ragazza che faticava ad arrivare a fine mese; lo presi da parte e gli chiesi la ragione dei suoi dispetti; mi rispose che lo faceva tanto per fare qualcosa. Allora gli dissi che se non l’avesse più fatto gli avrei pagato il gelato. Il patto fu concluso; gli accusatori rimasero con un palmo di naso, ma da quel momento i manifesti rimasero intatti.
Con i nuovi inquilini di via Tiziano e via Marconi arrivarono nuove famiglie e nuovi preziosi elementi donandoci così il carissimo Padre Bragotti che dopo un anno celebrò la sua prima Messa.
Pochi mesi dopo, si dovette sgomberare la chiesa perchè il tetto era pericolante e l’asilo fu utilizzato per le funzioni religiose.
Alcuni mesi dopo le pressanti preghiere di avere un prete per la gioventù vennero esaudite e arrivò il primo coadiutore (don Efrem Bernardi) nel quale i giovani trovarono un sicuro e importante punto di riferimento.
Il numero elevato di bambini all’asilo richiese un incremento delle suore e con il loro continuo avvicendarsi la corale formata da molti elementi di tutte le età, passò sotto la direzione di suor Alda. Ho presente che una vigilia di Natale dovevamo trovarci alle dieci di sera per le prove; ma l’organista in un banale incidente sui campi di sci si infortunò gravemente e Suor Alda quasi disperata telefonò a Suor Teresina Viola, che da quel momento ad ogni messa, tranne quella dei ragazzi, non fece mai mancare la sua presenza in parrocchia per molti anni.
Momento importante fu il giorno della posa della prima pietra della nuova chiesa, fortemente voluta dalla comunità parrocchiale, da don Luigi e dalla sua mamma Maria. Gravemente ammalata, mamma Maria non ebbe però la gioia di vederne la definitiva sistemazione, ma come segno di riconoscenza nella nuova chiesa, liberata dai detriti poche ore prima, venne celebrata per il suo funerale la prima messa.
Non posso poi dimenticare il giorno in cui il nostro teatro, frutto dell’impegno di molte persone nel quale con soddisfazione il gruppo teatrale, fondato dal sig. Cattaneo, presentava i suoi lavori, in una sera di carnevale andò a fuoco: tutti gli sforzi fatti da suor Rita per renderlo sempre più bello, con continue e pressanti richieste a tutti i suoi amici, parenti e parrocchiani vennero vanificati da un banale corto circuito.
Ho ancora negli occhi la condizione delle statue del presepio a cui tenevo particolarmente, con cui ogni anno mi accingevo alla preparazione del santo Natale, totalmente annerite dal fumo dell’incendio e la gioia infinita nel rivederle, dopo solo pochi mesi, totalmente restaurate dal nostro parrocchiano, il pittore sig. Carenzi, pronte per essere esposte già in quel Natale.
E dopo molti anni di abbandono, venne anche il giorno della rinascita di quella struttura con l’inaugurazione del nuovo oratorio, fortemente atteso da tutti e portato al suo compimento per l’impegno del nostro nuovo parroco don Danilo Dorini.
Sicuramente in questi anni vissuti in Parrocchia non posso richiamare alla mente in queste righe tutte le persone con cui ho lavorato, gioito e sofferto, ma certo sono tutte nel mio cuore e ringrazio Dio di avermele fatte incontrare, conoscere, apprezzare ed amare.
Settimo Buratti – Dicembre 2008
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